L’ESPERIMENTO
di Taylor Clarke
Quella di Howard Schultz fu una sfida al senso di decenza o semplicemente una decisione geniale? La risposta dipende dalla vostra inclinazione ideologica e, alla fine dei conti, da quanto vi piace il caffè. All’inizio del 1991 la caffetteria più redditizia di Schultz, che pochi anni prima aveva racimolato qua e là i soldi per comprare una giovanissima azienda di caffè di Seattle di nome Starbucks, si trovava a un animato incrocio dell’elegante quartiere commerciale di Robson Street a Vancouver nella British Columbia. Da un punto di vista estetico la caffetteria non aveva niente di speciale; occupava un vecchio locale cadente che puzzava di muffa e offriva ai clienti pochissimo spazio per sedersi. Il negozio, tuttavia, era la prova vivente dell’improvvisa, intensa e sorprendente voglia globale di costose bevande al caffè. In un’epoca in cui miscugli come il caffelatte erano ancora esotici e misteriosi in America, questo minuscolo Starbucks ne serviva diecimila alla settimana, senza contare i clienti che non riuscivano a entrare e se ne andavano. A sentire i dipendenti, la caffetteria aveva un tale successo che venivano persi ogni giorno centinaia di potenziali clienti a causa delle interminabili file.
A Schultz questo non andava giù. Giovane e ambizioso con un passato da venditore di casalinghi, cresciuto in mezzo alle ristrettezze nelle case popolari di Brooklyn, Schultz si era buttato a catturare clienti e a espandere la catena dal giorno in cui l’aveva rilevata. Quando l’aveva acquisita nel 1987, l’azienda contava undici punti vendita; meno di tre anni dopo contava 85 caffetterie. Schultz non era, quindi, il genere di persona che digerisse facilmente la perdita di clienti potenziali. Da anni chiedeva insistentemente al suo agente immobiliare a Vancouver di trovare un altro locale nel quartiere senza però che ne saltasse mai fuori uno adatto. Come se la situazione non fosse già abbastanza precaria, Schultz venne a sapere che nel giro di qualche anno il padrone dello stabile di Robson Street gli avrebbe fatto chiudere bottega per sventrare l’edificio, sottraendo a Starbucks la sua gallina dalle uova d’oro per il tempo necessario ai lavori di ristrutturazione. Per un’azienda che stava ancora lottando per raggiungere il pareggio di bilancio vendendo bevande al caffè, che in molti consideravano una mania passeggera tipo la fonduta o il marsupio, era una notizia allarmante. Nel 1989 Starbucks aveva già perso 1,2 milioni di dollari; non poteva permettersi di accumulare molte altre perdite. Per quanto sgradita, la notizia diede a Schultz la scusa per sperimentare un’idea su cui meditava segretamente da un po’ di tempo, qualcosa d’intentato.
Un giorno, Schultz svelò il suo progetto discutendo con l’agente immobiliare sulla disponibilità di spazi alternativi nelle vicinanze.
«Che ne pensi del ristorante dall’altro lato della strada?» domandò.
«Di quale stai parlando?» rispose l’agente immobiliare.
«Del ristorante all’angolo opposto dell’incrocio. Ci sono stato, ed è sempre deserto».
«Non credo che abbiano intenzione di dartelo e poi dubito tu abbia i soldi per affittarlo», gli rispose l’incredulo agente immobiliare, «ma mi stai dicendo che ne vorresti aprire un altro sull’altro lato della strada?».
«Sì».
E fu così che partì l’insolito esperimento di Schultz: che cosa sarebbe successo, se avesse piazzato accanto a uno Starbucks un altro Starbucks? (Erano davvero a un tiro di sputo, uno in Robson Street 1099, l’altro in Robson Street 1100.) Di fronte allo scetticismo dei dipendenti e degli investitori Schultz giustificò il suo piano in due modi. Innanzitutto, la mossa avrebbe generato decine di servizi giornalistici sulla catena di caffè talmente folle da aprire due punti vendita sulla stessa strada uno di fronte all’altro: pubblicità gratis per la squattrinata azienda. In secondo luogo, i due negozi gemelli di Starbucks avrebbero potuto costruirsi clientele completamente distinte, se avessero assunto un aspetto sufficientemente diverso, o detto in altre parole, se l’azienda avesse fatto di tutto per fugare l’impressione che qualcuno avesse sistemato uno specchio gigante in mezzo alla strada.
A questo scopo Schultz scelse per il nuovo spazio tinte più scure, meno accese, come il rosso e il verde scuro, uno stile insomma un po’ diverso da quello dell’altra caffetteria, che aveva finiture cromate e i colori sgargianti della bandiera italiana. Il 2 marzo del 1991 l’intersezione dei due Starbucks aprì le porte alla clientela. È già abbastanza strano che uno Starbucks decidesse di aprire di fronte a un altro Starbucks, ma l’elemento più sconcertante della vicenda resta un altro: invece di irridere la presunzione di Starbucks e fargli chiudere bottega, i clienti arrivarono a frotte nella nuova caffetteria quasi che l’alternativa più vicina fosse nelle foreste dello Yukon.
Schultz temeva che le due caffetterie avrebbero finito per competere sulle vendite, ma non accadde nulla di simile. Come aveva sperato, attiravano gente sostanzialmente diversa; la nuova caffetteria richiamava professionisti pieni di soldi, mentre quella originaria attraeva una clientela più «giovane» e rilassata. Ed entrambi i gruppi accorrevano in massa. La scommessa di Schultz aveva fatto centro: sorprendentemente, le due caffetterie di Robson Street divennero in poco tempo i due negozi più redditizi della catena. La stranezza della faccenda merita di essere ribadita: i due negozi di maggiore successo di Starbucks si trovavano a quindici metri di distanza l’uno dall’altro.
In quella strada di Vancouver, Schultz vide quello di cui nessun altro si era accorto. Vide che ciascun angolo dell’incrocio aveva un flusso di traffico differente. («Il quartiere era lo stesso, ma l’atmosfera era diversa», disse successivamente a Newsweek, parlando dell’altro lato di Robson Street.) Vide che avrebbe potuto catturare migliaia di nuovi clienti semplicemente aprendo un negozio che ti faceva camminare qualche passo in meno. Ma, cosa più importante, si era reso conto della pazzesca, inesauribile voglia di caffè che serpeggiava nella società americana. Come mi ha spiegato Art Wahl, storico agente immobiliare di Starbucks: «A quel punto ci siamo detti “Dio mio… Possiamo piazzarli più vicini di quanto abbiamo mai immaginato”».
Oggi, naturalmente, è facile imbattersi in uno dei molti caffè di Starbucks. Per esempio, a Portland, nell’Oregon, quando gironzola per il centro commerciale di Pioneer Place, la gente non si ferma più a osservare la stranezza dello Starbucks del terzo piano piazzato direttamente sopra quello del primo: nonostante il fatto che siano separati da una distanza di soli quattro metri. Da un punto di Astor Place a Manhattan si possono scorgere ben tre Starbucks: uno accanto all’entrata della metropolitana, un altro sul lato opposto della piazza e un terzo all’interno dell’adiacente libreria Barnes & Noble. Siamo ormai così abituati all’ubiquità della catena che la spaventosa densità delle sue caffetterie è diventata fonte di battute più che di inquietudine. Per esempio, nel film Campioni di razza (2000) due personaggi che recitano la parte di marito e moglie raccontano come il loro primo incontro abbia avuto luogo da Starbucks. «Non lo stesso Starbucks», chiarisce il marito. «Eravamo in due Starbucks diversi, uno di fronte all’altro ai lati opposti della strada». È una cosa verosimile e probabilmente è successa. A seconda della propria visione del mondo, la scommessa di Schultz a Robson Street può essere vista in vari modi. Può essere considerata una vittoria del caffè di qualità o una gradita convenienza. Altri la giudicheranno un colpo di genio imprenditoriale, emblema di una delle più grandi avventure aziendali degli ultimi cinquant’anni. E poi ci sono le persone, come il comico Lewis Black, che lo considerano il segno premonitore di qualcosa di molto più sinistro. «Per un attimo tutto mi apparve sfocato». scrisse Black alla visione della coppia di Starbucks a Houston, «ma quando mi ripresi, ebbi come la sensazione che Dio fosse sceso su di me e mi avesse conferito tutto il sapere accumulato dall’inizio dei tempi. Stavo, infatti, assistendo alla tanto agognata fine dell’universo».
Il richiamo della sirena
Di alcune cose la gente non può fare a meno. Anche lo stile di vita più spartano richiede cibo, acqua, un tetto, vestiti e così via. Nella storia dell’umanità nessuno ha mai avuto bisogno del caffelatte per sopravvivere – e tanto meno di un doppio caffelatte di soia alla vaniglia senza schiuma, bollente ed extralarge – eppure la domanda planetaria per esso appare inesauribile. Vent’anni fa con il numero di americani che sapeva cosa fosse un caffè macchiato non ci avresti riempito la palestra di una scuola, provate oggi a trovare un rivenditore, compresi quelli delle pompe di benzina, che non venda caffè espressi. La società contemporanea accetta un livello di micro gestione del caffè che avrebbe sconvolto i nostri predecessori. Quando vediamo una persona prestare maggiore attenzione al cappuccino mattutino di quanta ne riservi alla propria igiene personale, ci sorprendiamo ancora?
L’America è una nazione dipendente dalla caffeina. Compra più caffè di qualsiasi altro paese del mondo – quasi un terzo della produzione planetaria – e ne consuma all’incirca 11 miliardi di tazze all’anno. Non mancano certo statistiche per attestare l’influenza del piccolo chicco marrone sulle nostre vite: dopo il petrolio, il caffè è la materia prima con il più grande mercato mondiale; quattro adulti americani su cinque bevono regolarmente caffè. Ma si tratta di factoids. Nelle acque del porto di Boston si può rilevare oggi una prova migliore della pervasività del caffè nella vita americana. Nel 1998 due ricercatori della University of Massachusetts eseguirono un’analisi chimica completa delle acque del porto, scoprendo, sorprendentemente, che contenevano tracce significative di caffeina. La concentrazione era abbastanza bassa da non produrre effetti sui pesci, ma la sua presenza era di per sé sconcertante. Se la caffeina si forma solamente in alcune piante terrestri, che ci faceva nelle acque del porto di Boston? La risposta cortese: escrezioni umane.
Ogni giorno vengono ingeriti nell’area metropolitana di Boston cinquecento chili di caffeina pura, una sostanza i cui cristalli sono così potenti da poter essere maneggiati soltanto da chi indossi una tuta di sicurezza. Poiché il corpo umano assorbe solamente il 95 per cento di questa sostanza, una dose gigantesca di caffeina entra nelle acque di scolo e defluisce ogni giorno nel porto di Boston. Il risultato finale equivale a scaricare ogni giorno nel porto circa un milione di tazze di caffè. In realtà la caffeina si ritrova in centinaia di fiumi, laghi e baie statunitensi, come pure nell’acqua trattata per uso potabile. Edward Furlong, ricercatore dello US Geological Survey, ha battezzato il fenomeno «effetto Starbucks».
Naturalmente, Starbucks non ha inventato il caffè, ma ne ha fatto qualcosa che nessuno riteneva possibile. L’azienda ha preso una materia prima che gli americani erano abituati a prendersi per un quarto di dollaro nei baracchini e nelle tavole calde, l’ha trasformata in un prodotto di lusso, ha convinto i clienti a comprarla a prezzi enormemente gonfiati e ha riempito dei propri punti vendita ogni città importante; e i clienti continuano a fare la fila in numero sempre crescente per sganciargli i soldi. Starbucks ha avuto un tale successo da riuscire addirittura a trasformare i clienti da peccatori in praticanti. Quando, nel 2006, un pastore della Chiesa Battista del Sud volle aumentare la partecipazione al rito pasquale nella sua chiesa di Cooper City in Florida, decise di inviare una cartolina postale che prometteva a ogni nuovo parrocchiano un buono di consumazione per Starbucks del valore di dieci dollari. Come riferito dal Miami Herald, l’esca si rivelò tremendamente efficace. La domenica di Pasqua si presentarono al rito 8.500 persone, quasi il doppio della tradizionale partecipazione pasquale; il personale della chiesa fu costretto a respingere la gente già nell’area parcheggi. Evidentemente, la via della salvazione del XXI secolo comprende una serie di fermate per rifornirsi di Frappuccino.
Grazie a una popolarità degna di un culto religioso Starbucks domina oggi il proprio mercato come poche altre aziende sono riuscite a fare nella storia recente. La prova? Dite il nome della seconda catena americana di caffetterie. Qualche suggerimento? È particolarmente difficile rispondere alla domanda, perché il suo maggiore concorrente è Caribou Coffee, un’azienda del Minnesota venticinque volte più piccola di Starbucks. Anzi, la fusione di tutti i suoi rivali (cioè di tutte le catene con più di tre negozi) in un unico, eterogeneo gigante del caffè darebbe vita a un’azienda più piccola della metà di Starbucks. «È come McDonald’s senza Burger King, Wendy’s o Subway», ha detto Kevin Knox, per molti anni esperto di torrefazione di Starbucks, oggi consulente industriale. «Esercita un dominio incontrastato».
Con un fatturato di 7,8 miliardi di dollari, 40 milioni di clienti alla settimana e più di 13.000 negozi, Starbucks non è una moda passeggera. È una nuova istituzione americana. Anzi, vista la forsennata espansione internazionale della catena e la sua capacità di trasformare le abitudini dei consumatori di caffè in ogni parte del mondo, Starbucks è piuttosto un’istituzione globale. Se è vero che oggi abbondano i libri dai titoli iperbolici, che ci spiegano Come il velcro ha cambiato il mondo e Perché la paprika è importante, per quel che riguarda Starbucks non è esagerato dire che l’azienda ha cambiato la dinamica del mondo contemporaneo. Influenza i flussi di traffico automobilistico e la prosperità di circa 45 milioni di coltivatori di caffè, mentre persuade intere nazioni a bere l’espresso. Si è inserita nel paesaggio urbano americano più velocemente e più abilmente di qualsiasi altra azienda nella storia e ha cambiato per sempre il modo in cui le imprese occidentali si propongono ai consumatori. In un’intervista a Forbes, Orin Smith, ex amministratore delegato di Starbucks, lo ha dichiarato in maniera ancora più audace: «Abbiamo cambiato il modo di vivere della gente, cosa fa quando si alza la mattina, il modo in cui si gratifica e dove si incontra».
A pensarci bene, l’intero fenomeno è sconcertante. Com’è riuscita una semplice azienda di caffè ad avere un’influenza tale sulla società, facendo dei propri costosi prodotti un’istituzione della vita di tutti i giorni praticamente dall’oggi al domani? Nel 1989 gli Stati Uniti potevano vantare complessivamente 585 caffetterie secondo le statistiche della Specialty Coffee Association of America e la maggior parte delle persone considerava totalmente folle l’idea di un’azienda impegnata esclusivamente nella vendita di caffè in tazza. Da anni gli esperti mediatici di economia lanciavano profezie sulla fine imminente delle caffetterie; eppure, l’America ne può oggi vantare 24.000 e il numero è destinato a crescere. Dopo decenni di crescita esponenziale il settore continua a espandersi più velocemente che mai. L’incessante diffusione delle caffetterie è stata molto più di un’attività incredibilmente redditizia: è un vero e proprio movimento sociale. In ogni angolo del pianeta, sia nei paesi con una secolare cultura delle caffetterie sia in quelli nei quali, ancora vent’anni fa, non si beveva praticamente caffè, il modello della caffetteria lanciato da Starbucks sta diventando dominante e pervasivo. Milioni di persone in tutto il mondo hanno integrato le caffetterie nella trama delle loro vite, facendone una specie di seconda casa. Perciò deve sicuramente esserci uno straordinario segreto dietro il seducente magnetismo delle caffetterie.
Il governo inglese nel 2002, attraverso l’Economic and Social Research Council, assegnò a due professori dell’università di Glasgow un finanziamento di 250.000 dollari per studiare i fattori sociali alla base dell’ascesa delle caffetterie in Inghilterra. Per tre anni, i ricercatori, Eric Laurier e Chris Philo, condussero una completa e approfondita campagna di studio del comportamento umano, diventando clienti fissi di una caffetteria, filmando i clienti nel loro luogo di ritrovo abituale, raccogliendo moltissime informazioni sul campo, imparando il lavoro di baristi, intervistando clienti e personale, e studiando negli archivi delle biblioteche il contesto storico e letterario del consumo di caffè. Una delle scoperte di Laurier e Philo è l’acuta osservazione che la musica diffusa nei locali cambia nel corso della giornata (di sera «c’è più ritmo. Il volume è più alto») e che una visita alla caffetteria è «un oggetto sequenziale che ha un inizio, l’ordinazione, la scelta del posto, l’occupazione del tavolo e l’uscita». Si possono già trarre un paio di conclusioni: primo, il governo inglese sperpera i fondi della ricerca; secondo, le caffetterie esercitano su di noi una fascinazione più profonda di quanto potrebbe sembrare. I risultati di Laurier e Philo sono deludenti non soltanto perché ovvi e semplicistici, ma anche perché non arrivano a centrare che cosa ci sia nelle caffetterie che le rende così ammalianti agli occhi dei consumatori.
Dopo tutto, le caffetterie non sono gli unici luoghi di ritrovo accoglienti e conviviali della Gran Bretagna, esistono anche i pub. Cosa più importante la ricerca non dice niente sul perché le caffetterie esercitino un tale fascino su tutto il pianeta, persino in paesi che hanno sempre snobbato il caffè, come la Cina e, appunto, l’Inghilterra. Se Starbucks ha certo avuto un ruolo importante nella nobilitazione e nella popolarizzazione delle caffetterie in America e all’estero, è veramente tutto merito del suo tocco di Mida? Perché l’idea funziona a Shanghai altrettanto bene che a Seattle? E, domanda forse ancora più importante, la gente vuole che Starbucks funzioni a Shanghai come funziona a Seattle? Per molti la risposta è un netto no. Se Starbucks ama rappresentarsi come un buon samaritano globale, che diffonde ovunque spirito comunitario e allegria come la polvere magica delle fate, l’azienda ha anche scatenato una marea di conflitti. Molte delle critiche riguardano l’ubiquità della catena; Starbucks testa spesso i limiti di accettazione dei consumatori. Per fare un esempio, considerate la seguente domanda:
Quale di questi luoghi non ha uno Starbucks?
A. La base navale di Guantanamo a Cuba
B. Una chiesa cristiana a Muncie nell’Indiana
C. Beirut in Libano
D. La città di Starbuck nello stato di Washington
E. La Grande Muraglia Cinese
La risposta esatta è D. La minuscola città di Starbuck nella parte orientale dello stato di Washington si trova a ben 65 chilometri di distanza dallo Starbucks più vicino con grande sconcerto delle centinaia di turisti che, ogni anno, ci fanno una capatina e scoprono che non si tratta della dimora ancestrale dell’azienda. Se già oggi Starbucks vi appare tentacolare, aspettate. Howard Schultz ama ripetere che la sua azienda è ancora al «secondo inning di nove», e il suo obiettivo di 40.000 negozi in tutto il mondo farebbe di Starbucks la più grande catena commerciale del mondo. Ma non è soltanto l’ubiquità di Starbucks a irritare gli animi. Per alcuni la catena di caffè incarna tutti i difetti delle grandi aziende. I critici hanno a più riprese accusato Starbucks di saccheggiare l’ambiente, di maltrattare i dipendenti, di derubare i coltivatori di caffè del Terzo Mondo, di distruggere i caffè indipendenti, di vampirizzare le economie locali, di spacciare un prodotto dannoso e di omogeneizzare il mondo. E queste sono solamente le critiche più note. Neppure le tazze della catena sono sfuggite alle polemiche; le citazioni che Starbucks riporta sui suoi caratteristici bicchieri di carta hanno suscitato proteste due volte, la prima da parte dei conservatori per la presenza di una frase dello scrittore gay Augusten Burroughs, la seconda da parte dei progressisti per l’affermazione del pastore evangelico Rick Warren secondo cui: «Tu non sei un incidente. Forse i tuoi genitori non ti avevano programmato, ma Dio sì». Praticamente la sola parte di Starbucks che non scatena controversie sono i suoi bagni. che possono essere usati, in caso di estrema necessità, anche da chi non è cliente.
Tutte queste cose – la vicinanza dei vari Starbucks, il porto pieno di caffeina, l’inchiesta sul seducente richiamo delle caffetterie, l’infuocato dibattito etico sulle iniziative di Starbucks – sono segni del sottile impatto di una sola azienda sull’intero pianeta. Ed è questo in sostanza lo scopo del libro: raccontare la storia di come una grande azienda, vendendo una merce semplice e antica, influenzi la vita e la cultura quotidiane del mondo. Starbucks è un’azienda molto più importante di quanto non si potrebbe pensare. Nel corso della storia tutte le società civilizzate hanno avuto luoghi dove la gente potesse radunarsi e socializzare, scambiarsi pettegolezzi, discutere idee o, semplicemente, rilassarsi. Questi luoghi di ritrovo pubblici sono essenziali per la buona salute di una cultura e hanno sempre rispecchiato il particolare carattere nazionale dei loro avventori: Londra ha i suoi pub chiassosi, Parigi i suoi tranquilli caffè all’aperto, Pechino le sue sale da tè formali ed eleganti, l’America degli anni Cinquanta le sue soda fountains piene di bibite e frullati. Oggi il perno della nostra vita sociale è l’accogliente caffetteria che ci coccola e ci vizia e Starbucks è stata la prima azienda ad aver standardizzato questo genere di spazio pubblico, facendone un brand commerciale e diffondendolo in tutto il mondo. In pratica sta trasformando il caffè dell’America nel caffè planetario. Il fatto che consumatori di tutto il mondo abbiano adottato la catena, facendone un elemento strutturale della propria vita, dice qualcosa d’importante su ciascuno di noi. Dice che quanto viene offerto da Starbucks – il senso di brillantezza e di vitalità, il senso di socialità e di protezione – è proprio ciò di cui la gente ha disperatamente bisogno. Ma man mano che questa istituzione americana si diffonde in tutto il mondo emerge tutta una serie di dubbi. Resta infatti da vedere se la crescente influenza dell’azienda sia un fenomeno positivo o negativo.
Starbucks si articola in due sezioni. Nella prima parte indaghiamo i misteriosi motivi per i quali Starbucks e la cultura del caffè hanno fatto presa in maniera così salda e improvvisa sull’America ed esaminiamo alcuni aspetti curiosi della vicenda. Perché Seattle è diventata l’epicentro globale del caffè? Perché Starbucks ha pagato un’azienda per ipnotizzare i suoi clienti? Perché Starbucks non ha concorrenti degni di questo nome? La seconda parte esplora i numerosi interrogativi etici suscitati dall’azienda nel perseguire il suo obiettivo di dominio globale sul caffè. Starbucks ha un effetto distruttivo sui piccoli caffè, come sostengono le voci critiche? Dovremmo sentirci complici dello sfruttamento dei coltivatori di caffè ogni volta che compriamo un caffelatte alla vaniglia? Con ogni settimana che passa Starbucks consolida la sua presenza come istituzione permanente del panorama globale. Per alcuni, la sua ubiquità è il massimo della comodità. Per altri, è un segno dell’apocalisse prossima ventura. Quelli del secondo gruppo hanno almeno un motivo di consolazione. Se è davvero la fine dell’universo, almeno ci si può sedere comodi.
di Taylor Clarke
Quella di Howard Schultz fu una sfida al senso di decenza o semplicemente una decisione geniale? La risposta dipende dalla vostra inclinazione ideologica e, alla fine dei conti, da quanto vi piace il caffè. All’inizio del 1991 la caffetteria più redditizia di Schultz, che pochi anni prima aveva racimolato qua e là i soldi per comprare una giovanissima azienda di caffè di Seattle di nome Starbucks, si trovava a un animato incrocio dell’elegante quartiere commerciale di Robson Street a Vancouver nella British Columbia. Da un punto di vista estetico la caffetteria non aveva niente di speciale; occupava un vecchio locale cadente che puzzava di muffa e offriva ai clienti pochissimo spazio per sedersi. Il negozio, tuttavia, era la prova vivente dell’improvvisa, intensa e sorprendente voglia globale di costose bevande al caffè. In un’epoca in cui miscugli come il caffelatte erano ancora esotici e misteriosi in America, questo minuscolo Starbucks ne serviva diecimila alla settimana, senza contare i clienti che non riuscivano a entrare e se ne andavano. A sentire i dipendenti, la caffetteria aveva un tale successo che venivano persi ogni giorno centinaia di potenziali clienti a causa delle interminabili file.
A Schultz questo non andava giù. Giovane e ambizioso con un passato da venditore di casalinghi, cresciuto in mezzo alle ristrettezze nelle case popolari di Brooklyn, Schultz si era buttato a catturare clienti e a espandere la catena dal giorno in cui l’aveva rilevata. Quando l’aveva acquisita nel 1987, l’azienda contava undici punti vendita; meno di tre anni dopo contava 85 caffetterie. Schultz non era, quindi, il genere di persona che digerisse facilmente la perdita di clienti potenziali. Da anni chiedeva insistentemente al suo agente immobiliare a Vancouver di trovare un altro locale nel quartiere senza però che ne saltasse mai fuori uno adatto. Come se la situazione non fosse già abbastanza precaria, Schultz venne a sapere che nel giro di qualche anno il padrone dello stabile di Robson Street gli avrebbe fatto chiudere bottega per sventrare l’edificio, sottraendo a Starbucks la sua gallina dalle uova d’oro per il tempo necessario ai lavori di ristrutturazione. Per un’azienda che stava ancora lottando per raggiungere il pareggio di bilancio vendendo bevande al caffè, che in molti consideravano una mania passeggera tipo la fonduta o il marsupio, era una notizia allarmante. Nel 1989 Starbucks aveva già perso 1,2 milioni di dollari; non poteva permettersi di accumulare molte altre perdite. Per quanto sgradita, la notizia diede a Schultz la scusa per sperimentare un’idea su cui meditava segretamente da un po’ di tempo, qualcosa d’intentato.
Un giorno, Schultz svelò il suo progetto discutendo con l’agente immobiliare sulla disponibilità di spazi alternativi nelle vicinanze.
«Che ne pensi del ristorante dall’altro lato della strada?» domandò.
«Di quale stai parlando?» rispose l’agente immobiliare.
«Del ristorante all’angolo opposto dell’incrocio. Ci sono stato, ed è sempre deserto».
«Non credo che abbiano intenzione di dartelo e poi dubito tu abbia i soldi per affittarlo», gli rispose l’incredulo agente immobiliare, «ma mi stai dicendo che ne vorresti aprire un altro sull’altro lato della strada?».
«Sì».
E fu così che partì l’insolito esperimento di Schultz: che cosa sarebbe successo, se avesse piazzato accanto a uno Starbucks un altro Starbucks? (Erano davvero a un tiro di sputo, uno in Robson Street 1099, l’altro in Robson Street 1100.) Di fronte allo scetticismo dei dipendenti e degli investitori Schultz giustificò il suo piano in due modi. Innanzitutto, la mossa avrebbe generato decine di servizi giornalistici sulla catena di caffè talmente folle da aprire due punti vendita sulla stessa strada uno di fronte all’altro: pubblicità gratis per la squattrinata azienda. In secondo luogo, i due negozi gemelli di Starbucks avrebbero potuto costruirsi clientele completamente distinte, se avessero assunto un aspetto sufficientemente diverso, o detto in altre parole, se l’azienda avesse fatto di tutto per fugare l’impressione che qualcuno avesse sistemato uno specchio gigante in mezzo alla strada.
A questo scopo Schultz scelse per il nuovo spazio tinte più scure, meno accese, come il rosso e il verde scuro, uno stile insomma un po’ diverso da quello dell’altra caffetteria, che aveva finiture cromate e i colori sgargianti della bandiera italiana. Il 2 marzo del 1991 l’intersezione dei due Starbucks aprì le porte alla clientela. È già abbastanza strano che uno Starbucks decidesse di aprire di fronte a un altro Starbucks, ma l’elemento più sconcertante della vicenda resta un altro: invece di irridere la presunzione di Starbucks e fargli chiudere bottega, i clienti arrivarono a frotte nella nuova caffetteria quasi che l’alternativa più vicina fosse nelle foreste dello Yukon.
Schultz temeva che le due caffetterie avrebbero finito per competere sulle vendite, ma non accadde nulla di simile. Come aveva sperato, attiravano gente sostanzialmente diversa; la nuova caffetteria richiamava professionisti pieni di soldi, mentre quella originaria attraeva una clientela più «giovane» e rilassata. Ed entrambi i gruppi accorrevano in massa. La scommessa di Schultz aveva fatto centro: sorprendentemente, le due caffetterie di Robson Street divennero in poco tempo i due negozi più redditizi della catena. La stranezza della faccenda merita di essere ribadita: i due negozi di maggiore successo di Starbucks si trovavano a quindici metri di distanza l’uno dall’altro.
In quella strada di Vancouver, Schultz vide quello di cui nessun altro si era accorto. Vide che ciascun angolo dell’incrocio aveva un flusso di traffico differente. («Il quartiere era lo stesso, ma l’atmosfera era diversa», disse successivamente a Newsweek, parlando dell’altro lato di Robson Street.) Vide che avrebbe potuto catturare migliaia di nuovi clienti semplicemente aprendo un negozio che ti faceva camminare qualche passo in meno. Ma, cosa più importante, si era reso conto della pazzesca, inesauribile voglia di caffè che serpeggiava nella società americana. Come mi ha spiegato Art Wahl, storico agente immobiliare di Starbucks: «A quel punto ci siamo detti “Dio mio… Possiamo piazzarli più vicini di quanto abbiamo mai immaginato”».
Oggi, naturalmente, è facile imbattersi in uno dei molti caffè di Starbucks. Per esempio, a Portland, nell’Oregon, quando gironzola per il centro commerciale di Pioneer Place, la gente non si ferma più a osservare la stranezza dello Starbucks del terzo piano piazzato direttamente sopra quello del primo: nonostante il fatto che siano separati da una distanza di soli quattro metri. Da un punto di Astor Place a Manhattan si possono scorgere ben tre Starbucks: uno accanto all’entrata della metropolitana, un altro sul lato opposto della piazza e un terzo all’interno dell’adiacente libreria Barnes & Noble. Siamo ormai così abituati all’ubiquità della catena che la spaventosa densità delle sue caffetterie è diventata fonte di battute più che di inquietudine. Per esempio, nel film Campioni di razza (2000) due personaggi che recitano la parte di marito e moglie raccontano come il loro primo incontro abbia avuto luogo da Starbucks. «Non lo stesso Starbucks», chiarisce il marito. «Eravamo in due Starbucks diversi, uno di fronte all’altro ai lati opposti della strada». È una cosa verosimile e probabilmente è successa. A seconda della propria visione del mondo, la scommessa di Schultz a Robson Street può essere vista in vari modi. Può essere considerata una vittoria del caffè di qualità o una gradita convenienza. Altri la giudicheranno un colpo di genio imprenditoriale, emblema di una delle più grandi avventure aziendali degli ultimi cinquant’anni. E poi ci sono le persone, come il comico Lewis Black, che lo considerano il segno premonitore di qualcosa di molto più sinistro. «Per un attimo tutto mi apparve sfocato». scrisse Black alla visione della coppia di Starbucks a Houston, «ma quando mi ripresi, ebbi come la sensazione che Dio fosse sceso su di me e mi avesse conferito tutto il sapere accumulato dall’inizio dei tempi. Stavo, infatti, assistendo alla tanto agognata fine dell’universo».
Il richiamo della sirena
Di alcune cose la gente non può fare a meno. Anche lo stile di vita più spartano richiede cibo, acqua, un tetto, vestiti e così via. Nella storia dell’umanità nessuno ha mai avuto bisogno del caffelatte per sopravvivere – e tanto meno di un doppio caffelatte di soia alla vaniglia senza schiuma, bollente ed extralarge – eppure la domanda planetaria per esso appare inesauribile. Vent’anni fa con il numero di americani che sapeva cosa fosse un caffè macchiato non ci avresti riempito la palestra di una scuola, provate oggi a trovare un rivenditore, compresi quelli delle pompe di benzina, che non venda caffè espressi. La società contemporanea accetta un livello di micro gestione del caffè che avrebbe sconvolto i nostri predecessori. Quando vediamo una persona prestare maggiore attenzione al cappuccino mattutino di quanta ne riservi alla propria igiene personale, ci sorprendiamo ancora?
L’America è una nazione dipendente dalla caffeina. Compra più caffè di qualsiasi altro paese del mondo – quasi un terzo della produzione planetaria – e ne consuma all’incirca 11 miliardi di tazze all’anno. Non mancano certo statistiche per attestare l’influenza del piccolo chicco marrone sulle nostre vite: dopo il petrolio, il caffè è la materia prima con il più grande mercato mondiale; quattro adulti americani su cinque bevono regolarmente caffè. Ma si tratta di factoids. Nelle acque del porto di Boston si può rilevare oggi una prova migliore della pervasività del caffè nella vita americana. Nel 1998 due ricercatori della University of Massachusetts eseguirono un’analisi chimica completa delle acque del porto, scoprendo, sorprendentemente, che contenevano tracce significative di caffeina. La concentrazione era abbastanza bassa da non produrre effetti sui pesci, ma la sua presenza era di per sé sconcertante. Se la caffeina si forma solamente in alcune piante terrestri, che ci faceva nelle acque del porto di Boston? La risposta cortese: escrezioni umane.
Ogni giorno vengono ingeriti nell’area metropolitana di Boston cinquecento chili di caffeina pura, una sostanza i cui cristalli sono così potenti da poter essere maneggiati soltanto da chi indossi una tuta di sicurezza. Poiché il corpo umano assorbe solamente il 95 per cento di questa sostanza, una dose gigantesca di caffeina entra nelle acque di scolo e defluisce ogni giorno nel porto di Boston. Il risultato finale equivale a scaricare ogni giorno nel porto circa un milione di tazze di caffè. In realtà la caffeina si ritrova in centinaia di fiumi, laghi e baie statunitensi, come pure nell’acqua trattata per uso potabile. Edward Furlong, ricercatore dello US Geological Survey, ha battezzato il fenomeno «effetto Starbucks».
Naturalmente, Starbucks non ha inventato il caffè, ma ne ha fatto qualcosa che nessuno riteneva possibile. L’azienda ha preso una materia prima che gli americani erano abituati a prendersi per un quarto di dollaro nei baracchini e nelle tavole calde, l’ha trasformata in un prodotto di lusso, ha convinto i clienti a comprarla a prezzi enormemente gonfiati e ha riempito dei propri punti vendita ogni città importante; e i clienti continuano a fare la fila in numero sempre crescente per sganciargli i soldi. Starbucks ha avuto un tale successo da riuscire addirittura a trasformare i clienti da peccatori in praticanti. Quando, nel 2006, un pastore della Chiesa Battista del Sud volle aumentare la partecipazione al rito pasquale nella sua chiesa di Cooper City in Florida, decise di inviare una cartolina postale che prometteva a ogni nuovo parrocchiano un buono di consumazione per Starbucks del valore di dieci dollari. Come riferito dal Miami Herald, l’esca si rivelò tremendamente efficace. La domenica di Pasqua si presentarono al rito 8.500 persone, quasi il doppio della tradizionale partecipazione pasquale; il personale della chiesa fu costretto a respingere la gente già nell’area parcheggi. Evidentemente, la via della salvazione del XXI secolo comprende una serie di fermate per rifornirsi di Frappuccino.
Grazie a una popolarità degna di un culto religioso Starbucks domina oggi il proprio mercato come poche altre aziende sono riuscite a fare nella storia recente. La prova? Dite il nome della seconda catena americana di caffetterie. Qualche suggerimento? È particolarmente difficile rispondere alla domanda, perché il suo maggiore concorrente è Caribou Coffee, un’azienda del Minnesota venticinque volte più piccola di Starbucks. Anzi, la fusione di tutti i suoi rivali (cioè di tutte le catene con più di tre negozi) in un unico, eterogeneo gigante del caffè darebbe vita a un’azienda più piccola della metà di Starbucks. «È come McDonald’s senza Burger King, Wendy’s o Subway», ha detto Kevin Knox, per molti anni esperto di torrefazione di Starbucks, oggi consulente industriale. «Esercita un dominio incontrastato».
Con un fatturato di 7,8 miliardi di dollari, 40 milioni di clienti alla settimana e più di 13.000 negozi, Starbucks non è una moda passeggera. È una nuova istituzione americana. Anzi, vista la forsennata espansione internazionale della catena e la sua capacità di trasformare le abitudini dei consumatori di caffè in ogni parte del mondo, Starbucks è piuttosto un’istituzione globale. Se è vero che oggi abbondano i libri dai titoli iperbolici, che ci spiegano Come il velcro ha cambiato il mondo e Perché la paprika è importante, per quel che riguarda Starbucks non è esagerato dire che l’azienda ha cambiato la dinamica del mondo contemporaneo. Influenza i flussi di traffico automobilistico e la prosperità di circa 45 milioni di coltivatori di caffè, mentre persuade intere nazioni a bere l’espresso. Si è inserita nel paesaggio urbano americano più velocemente e più abilmente di qualsiasi altra azienda nella storia e ha cambiato per sempre il modo in cui le imprese occidentali si propongono ai consumatori. In un’intervista a Forbes, Orin Smith, ex amministratore delegato di Starbucks, lo ha dichiarato in maniera ancora più audace: «Abbiamo cambiato il modo di vivere della gente, cosa fa quando si alza la mattina, il modo in cui si gratifica e dove si incontra».
A pensarci bene, l’intero fenomeno è sconcertante. Com’è riuscita una semplice azienda di caffè ad avere un’influenza tale sulla società, facendo dei propri costosi prodotti un’istituzione della vita di tutti i giorni praticamente dall’oggi al domani? Nel 1989 gli Stati Uniti potevano vantare complessivamente 585 caffetterie secondo le statistiche della Specialty Coffee Association of America e la maggior parte delle persone considerava totalmente folle l’idea di un’azienda impegnata esclusivamente nella vendita di caffè in tazza. Da anni gli esperti mediatici di economia lanciavano profezie sulla fine imminente delle caffetterie; eppure, l’America ne può oggi vantare 24.000 e il numero è destinato a crescere. Dopo decenni di crescita esponenziale il settore continua a espandersi più velocemente che mai. L’incessante diffusione delle caffetterie è stata molto più di un’attività incredibilmente redditizia: è un vero e proprio movimento sociale. In ogni angolo del pianeta, sia nei paesi con una secolare cultura delle caffetterie sia in quelli nei quali, ancora vent’anni fa, non si beveva praticamente caffè, il modello della caffetteria lanciato da Starbucks sta diventando dominante e pervasivo. Milioni di persone in tutto il mondo hanno integrato le caffetterie nella trama delle loro vite, facendone una specie di seconda casa. Perciò deve sicuramente esserci uno straordinario segreto dietro il seducente magnetismo delle caffetterie.
Il governo inglese nel 2002, attraverso l’Economic and Social Research Council, assegnò a due professori dell’università di Glasgow un finanziamento di 250.000 dollari per studiare i fattori sociali alla base dell’ascesa delle caffetterie in Inghilterra. Per tre anni, i ricercatori, Eric Laurier e Chris Philo, condussero una completa e approfondita campagna di studio del comportamento umano, diventando clienti fissi di una caffetteria, filmando i clienti nel loro luogo di ritrovo abituale, raccogliendo moltissime informazioni sul campo, imparando il lavoro di baristi, intervistando clienti e personale, e studiando negli archivi delle biblioteche il contesto storico e letterario del consumo di caffè. Una delle scoperte di Laurier e Philo è l’acuta osservazione che la musica diffusa nei locali cambia nel corso della giornata (di sera «c’è più ritmo. Il volume è più alto») e che una visita alla caffetteria è «un oggetto sequenziale che ha un inizio, l’ordinazione, la scelta del posto, l’occupazione del tavolo e l’uscita». Si possono già trarre un paio di conclusioni: primo, il governo inglese sperpera i fondi della ricerca; secondo, le caffetterie esercitano su di noi una fascinazione più profonda di quanto potrebbe sembrare. I risultati di Laurier e Philo sono deludenti non soltanto perché ovvi e semplicistici, ma anche perché non arrivano a centrare che cosa ci sia nelle caffetterie che le rende così ammalianti agli occhi dei consumatori.
Dopo tutto, le caffetterie non sono gli unici luoghi di ritrovo accoglienti e conviviali della Gran Bretagna, esistono anche i pub. Cosa più importante la ricerca non dice niente sul perché le caffetterie esercitino un tale fascino su tutto il pianeta, persino in paesi che hanno sempre snobbato il caffè, come la Cina e, appunto, l’Inghilterra. Se Starbucks ha certo avuto un ruolo importante nella nobilitazione e nella popolarizzazione delle caffetterie in America e all’estero, è veramente tutto merito del suo tocco di Mida? Perché l’idea funziona a Shanghai altrettanto bene che a Seattle? E, domanda forse ancora più importante, la gente vuole che Starbucks funzioni a Shanghai come funziona a Seattle? Per molti la risposta è un netto no. Se Starbucks ama rappresentarsi come un buon samaritano globale, che diffonde ovunque spirito comunitario e allegria come la polvere magica delle fate, l’azienda ha anche scatenato una marea di conflitti. Molte delle critiche riguardano l’ubiquità della catena; Starbucks testa spesso i limiti di accettazione dei consumatori. Per fare un esempio, considerate la seguente domanda:
Quale di questi luoghi non ha uno Starbucks?
A. La base navale di Guantanamo a Cuba
B. Una chiesa cristiana a Muncie nell’Indiana
C. Beirut in Libano
D. La città di Starbuck nello stato di Washington
E. La Grande Muraglia Cinese
La risposta esatta è D. La minuscola città di Starbuck nella parte orientale dello stato di Washington si trova a ben 65 chilometri di distanza dallo Starbucks più vicino con grande sconcerto delle centinaia di turisti che, ogni anno, ci fanno una capatina e scoprono che non si tratta della dimora ancestrale dell’azienda. Se già oggi Starbucks vi appare tentacolare, aspettate. Howard Schultz ama ripetere che la sua azienda è ancora al «secondo inning di nove», e il suo obiettivo di 40.000 negozi in tutto il mondo farebbe di Starbucks la più grande catena commerciale del mondo. Ma non è soltanto l’ubiquità di Starbucks a irritare gli animi. Per alcuni la catena di caffè incarna tutti i difetti delle grandi aziende. I critici hanno a più riprese accusato Starbucks di saccheggiare l’ambiente, di maltrattare i dipendenti, di derubare i coltivatori di caffè del Terzo Mondo, di distruggere i caffè indipendenti, di vampirizzare le economie locali, di spacciare un prodotto dannoso e di omogeneizzare il mondo. E queste sono solamente le critiche più note. Neppure le tazze della catena sono sfuggite alle polemiche; le citazioni che Starbucks riporta sui suoi caratteristici bicchieri di carta hanno suscitato proteste due volte, la prima da parte dei conservatori per la presenza di una frase dello scrittore gay Augusten Burroughs, la seconda da parte dei progressisti per l’affermazione del pastore evangelico Rick Warren secondo cui: «Tu non sei un incidente. Forse i tuoi genitori non ti avevano programmato, ma Dio sì». Praticamente la sola parte di Starbucks che non scatena controversie sono i suoi bagni. che possono essere usati, in caso di estrema necessità, anche da chi non è cliente.
Tutte queste cose – la vicinanza dei vari Starbucks, il porto pieno di caffeina, l’inchiesta sul seducente richiamo delle caffetterie, l’infuocato dibattito etico sulle iniziative di Starbucks – sono segni del sottile impatto di una sola azienda sull’intero pianeta. Ed è questo in sostanza lo scopo del libro: raccontare la storia di come una grande azienda, vendendo una merce semplice e antica, influenzi la vita e la cultura quotidiane del mondo. Starbucks è un’azienda molto più importante di quanto non si potrebbe pensare. Nel corso della storia tutte le società civilizzate hanno avuto luoghi dove la gente potesse radunarsi e socializzare, scambiarsi pettegolezzi, discutere idee o, semplicemente, rilassarsi. Questi luoghi di ritrovo pubblici sono essenziali per la buona salute di una cultura e hanno sempre rispecchiato il particolare carattere nazionale dei loro avventori: Londra ha i suoi pub chiassosi, Parigi i suoi tranquilli caffè all’aperto, Pechino le sue sale da tè formali ed eleganti, l’America degli anni Cinquanta le sue soda fountains piene di bibite e frullati. Oggi il perno della nostra vita sociale è l’accogliente caffetteria che ci coccola e ci vizia e Starbucks è stata la prima azienda ad aver standardizzato questo genere di spazio pubblico, facendone un brand commerciale e diffondendolo in tutto il mondo. In pratica sta trasformando il caffè dell’America nel caffè planetario. Il fatto che consumatori di tutto il mondo abbiano adottato la catena, facendone un elemento strutturale della propria vita, dice qualcosa d’importante su ciascuno di noi. Dice che quanto viene offerto da Starbucks – il senso di brillantezza e di vitalità, il senso di socialità e di protezione – è proprio ciò di cui la gente ha disperatamente bisogno. Ma man mano che questa istituzione americana si diffonde in tutto il mondo emerge tutta una serie di dubbi. Resta infatti da vedere se la crescente influenza dell’azienda sia un fenomeno positivo o negativo.
Starbucks si articola in due sezioni. Nella prima parte indaghiamo i misteriosi motivi per i quali Starbucks e la cultura del caffè hanno fatto presa in maniera così salda e improvvisa sull’America ed esaminiamo alcuni aspetti curiosi della vicenda. Perché Seattle è diventata l’epicentro globale del caffè? Perché Starbucks ha pagato un’azienda per ipnotizzare i suoi clienti? Perché Starbucks non ha concorrenti degni di questo nome? La seconda parte esplora i numerosi interrogativi etici suscitati dall’azienda nel perseguire il suo obiettivo di dominio globale sul caffè. Starbucks ha un effetto distruttivo sui piccoli caffè, come sostengono le voci critiche? Dovremmo sentirci complici dello sfruttamento dei coltivatori di caffè ogni volta che compriamo un caffelatte alla vaniglia? Con ogni settimana che passa Starbucks consolida la sua presenza come istituzione permanente del panorama globale. Per alcuni, la sua ubiquità è il massimo della comodità. Per altri, è un segno dell’apocalisse prossima ventura. Quelli del secondo gruppo hanno almeno un motivo di consolazione. Se è davvero la fine dell’universo, almeno ci si può sedere comodi.
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